mercoledì 4 aprile 2012

La notte più lunga. 1

Chissà se è vero che gli eventi importanti devono essere metabolizzati prima di essere raccontati. Domani sono tre settimane dalla nascita di F. Tre settimane in cui la vita che appena intuivo è arrivata ed ha stravolto la mia. In cui il tempo mai gestito della mia esistenza non è più completamente nelle mie mani, ma dipende da un essere minuscolo e potente, che detta ritmi, impone veglie, concede tregue. Ed ora è impossibile rimandare, come ho fatto per 32 anni. Ora dieci minuti solo per me sono un lusso da sfruttare al massimo. Ma tre settimane sono passate! Non so se ho digerito l'esperienza del parto, ma ricordo tutto come fossi in trance, o forse, in trance, lo sono ora, e ricordo tutto come gli ultimi momenti di lucidità che mi siano stati concessi.
Insomma la storia comincia così.
Quello stesso pomeriggio, dopo aver perso il tappo mucoso, mia moglie esce a fare una passeggiata con la di lei mamma e al rientro ha una contrazione abbastanza forte da impedirle di continuare a camminare per diversi secondi. E capisce che questa contrazione qui, beh! questa è diversa dalle solite. Rientra e dopo una 30 minuti zàcchete! un'altra. Ci siamo, la cosa sembra avviata e, in un'imprevedibile vertigine di serenità, prendiamo un orologio, un quaderno, due penne (c'è sempre qualcosa di bizzarro sulla scena di un crimine) e ci sediamo sul divano. Inutile correre prima che le contrazioni si siano intensificate fino ad intervalli di cinque minuti.
Che poi tu per nove mesi hai fantasticato su questo momento, te lo sei sognato, te lo sei figurato più e più volte, e il virus hollywoodiano te lo ha fatto sempre immaginare di corsa mentre sfrecci per le vie della città su un bolide da un milione di cavalli, con tua moglie sudata in preda alle doglie e tu che urli: «Cristo santo, oh cazzo» e tutte le altre parole che i doppiatori usano al posto di fuck. E invece eccoci, seduti su un divano, con un sorriso ebete, a cronometrare le contrazioni.  Mezz'ora, mezz'ora, più o meno venti, più o meno venti, più o meno quindici, più o meno quindici, «questa la consideriamo?», «no, è durata poco ed era leggera», «questa sì, questa sì, allora...» meno di dieci, otto, otto, ecco cinque: «Dai, andiamo».
Arriviamo in ospedale circa alle dieci di sera. L'ostetrica con giovialità mi spinge fuori: «Lei si accomodi, facciamo un tracciato e poi, se è il caso, lo facciamo entrare», mentre una signora biondo baluginante con ricrescita grigia, seduta su una panca in corridoio, squittisce:
«Ah, stia pur tranquillo, ce ne vuole di tempo ancora, noi siamo qui dalle due di pomeriggio...»
Sono le dieci di sera. Questa può essere una notte - sarà il caso di dirlo - travagliata! Bisogna fornirsi di spiccioli e cercare la macchinetta del caffè.
TO BE CONTINUED...